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tedeschi, una importanza affatto sproporzionata al loro intrinseco valore. Oggi da un tale andazzo ci veniamo liberando, e dobbiamo badare di non cadere nell'eccesso opposto.

È duopo studiare la storia della filosofia quale si è svolta in Italia, senza pretendere di trovare in essa maggior continuità, coerenza e indipendenza che di fatto non vi sia stata; ma portando tutta la dovuta attenzione ai nostri maggiori pensatori di ogni tempo, e con il proposito o con il voto che l'opera loro sia continuata. Noi oggi assistiamo ad un salutare risveglio filosofico nel nostro paese. Con la critica dello hegelianismo fatta da Benedetto Croce, col ripensamento e con la trasformazione del sistema di Hegel nelle dottrine di Giovanni Gentile, è stato ripreso, dopo il periodo naturalistico e positivistico, quel movimento filosofico che sembrava essersi interrotto con Bertrando Spaventa. Noi pensiamo che occorra risalire anche più oltre, e senza trascurare quell'insigne ed oscuro pensatore che fu Pietro Ceretti, ristudiare con novello spirito le opere del Rosmini e del Gioberti; dei quali, se il primo, con la sua percezione intellettiva e col suo Essere ideale oltrepassa la critica kantiana, il secondo ci sembra accenni ad una forma superiore dell'Idealismo Assoluto di Hegel, benchè manchi dello sviluppo e dello sguardo universale e sintetico del filosofo tedesco.

Il Vico, il Rosmini e il Gioberti non sono forse filosofi incerti tra la trascendenza e l'immanenza, ma ricercatori di un principio superiore che l'una e l'altra abbracci e comprenda. Essi rimangono i più forti pensatori della moderna filosofia italiana, e sui loro sistemi, guardati lungo tempo col solo criterio della maggiore o minore ortodossia religiosa dei loro autori, non è stato forse ancora pronunciato un giudizio in tutto soddisfacente. E noi pensiamo che ad essi non meno che ad Hegel e agli hegeliani molto dovrà la filosofia italiana dell'avvenire.

ANTONIO PAGANO

ITALIA, SERBIA E ALBANIA

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I. L'Italia e la pace nell'Adriatico. Le prove negative del 'rattato d'amici. zia italo-jugoslavo. III. Gli intrighi serbi in Albania e la reazione italiana. — III. Il Patto di Tirana. Illusioni e allucinazioni della politica di Belgrado. IV. Le aspirazioni territoriali dei Serbi in Albania. La politica albanese della Jugoslavia dopo la guerra. V. La politica preventiva dell'Italia e il suo successo. Le sette e le forze « irresponsabili» della Jugoslavia. VI. Tumulto jugoslavo e serenità italiana. La politica della Serbia pericolosa alla pace europea. VII. La propaganda d'odio contro l'Italia. Le incognite dell'avvenire e la posizione dell'Italia.

I.

Nell'Albania si delinea sempre più fortemente quell'opposizione d'interessi, che fu prevista sin dalla guerra europea, dimostrandosi, come fu più volte asserito in questa rivista, specialmente da Attilio Tamaro, che in nessun punto dell'Adriatico ci può essere un vero e duraturo accordo con gli Jugoslavi e che nello stesso Adriatico il conflitto storico non è meno coi Serbi che coi Croati e con gli Sloveni. L'Italia come grande Potenza e come grande nazione, può già dimostrare d'aver fatto i maggiori sacrifici e di aver tentato tutte le vie per raggiungere la pace e una effettiva collaborazione. La rinuncia alla Dalmazia, il tradimento del Montenegro, l'abbandono d'ogni politica attiva nei Balcani, e tutta la politica menata dal 1918 al 1922 furono inutili: a nulla giovarono gli impudenti amori slavofili di Sforza, a nulla l'insanguinato trattato di Rapallo, a nulla la tragedia del Natale fiumano, a nulla le penose, lunghissime discussioni di Santa Margherita. L'esperienza storica dimostrò incontestabilmente la falsità e l'inganno della politica dei rinunciatori, che avevano promesso l'idillio sull'Adriatico, qualora noi avessimo abbandonato la Dalmazia e fatto di Fiume uno stato autonomo. Più da parte italiana si cedette e più da parte jugoslava si pretese.

Mussolini, giunto al potere, volle ratificare i trattati preparati dai precedenti Governi: fu politica saggia e ne

cessaria. Volle anch'egli mostrare, che l'Italia desiderava la pace e invitò gli Jugoslavi a un patto d'amicizia. La Serbia, che sul principio del 1924 si trovava dinanzi a una situazione interna gravissima e voleva dare ai Croati la sensazione di essere presi nella morsa di un accordo italoserbo e agli altri popoli soggetti e ribelli l'impressione di non poter contare in alcun modo su un soccorso italiano, firmò il trattato, malgrado l'opposizione croata e slovena. Firmò col sistema usato sempre da Pasich: senza sincerità, senza propositi durevoli, per opportunità e per superare le difficoltà del momento. Noi firmammo con molta sincerità tuttavia con consapevolezza di fare una prova. Uno scrittore radicale serbo, il Ristich (Vreme, 18 - III - 1927) riconobbe la lealtà, con cui Mussolini trattò allora la Serbia. Per buona sorte, Mussolini aveva congegnato il trattato non solo con prudenza politica, ma con energia e con straordinaria abilità: in modo da assicurare all'Italia, anche in caso di mancata ratifica jugoslava e in caso di slealtà altrui il massimo vantaggio contenuto per essa nel trattato stesso, l'acquisto di Fiume in piena sovranità. Le successive Convenzioni di Nettuno furono destinate a regolare l'esecuzione del Trattato di Rapallo (che in realtà si dimostra ineseguibile) e delle insufficienti Convenzioni di Santa Margherita, nonchè a formare una specie di codice di buon vicinato fra l'Italia e la Jugoslavia; ma dovevano insieme mostrare, quali fossero veramente le intenzioni dei Karageorgevich e dei Serbi.

La prova appare una volta ancora del tutto negativa. Chiunque conosca la situazione parlamentare della Serbia e gli avvenimenti politici degli ultimi tre anni, sa benissimo che, se Pasich e lo stesso debole Uzunovich avessero voluto veramente ottenere la ratifica delle Convenzioni di Nettuno e se il Re Alessandro avesse voluto imporre la sua volontà, la ratifica si sarebbe certamente e facilmente avuta. La Skupstina avrebbe recalcitrato, ma poi approvato, potendo la maggioranza dei radicali essere sempre ammaestrata dal vecchio Pasich. Ci fu un momento, in cui lo stesso Radich dichiarò doverosa e inevitabile la ratifica. Invece per oltre due anni il governo di Belgrado promise di portare le convenzioni dinanzi alla Skupstina e non fece

nulla, ingannando la leale attesa del Governo italiano con una serie ininterrotta di finte manovre. Si diceva non possumus. In realtà non si voleva. Anche perchè Belgrado stimava d'aver troppo concesso agli Italiani della Dalmazia e voleva riaprire la discussione. Un momento osò persino complicare le sue manovre e abusarne: e fu quando nel 1926, promettendo insinceramente come sicura la ratifica delle Convenzioni di Nettuno, che non voleva e contro le quali era scatenata ormai una tumultuosa e generale opposizione in Croazia e in Slovenia, chiese al Governo italiano di far prima approvare e ratificare il trattato di commercio, di cui l'economia jugoslava aveva grande bisogno e che il Governo italiano condizionava invece al mantenimento dei patti d'amicizia. Chi, come lo scrittore di queste righe, conosce da vicino uomini e cose della Jugoslavia, sa che il Governo serbo non ha mai sul serio voluto ratificare le Convenzioni di Nettuno. Lo stesso Jovan Jovanovich (confr. Vreme, 29 dicembre 1926) ha riconosciuto che Nincich era il vero responsabile delle continue procrastinazioni, che avevano portato al fallimento della ratifica. Ma se fosse vero, che questa non s'ebbe per l'opposizione dei Croati, degli Sloveni e dei democratici, sarebbe provato che il Governo serbo non fu in grado di mantenere gli impegni, che aveva firmati con l'Italia in nome di tutto lo Stato S. C. S. Agli effetti politici e storici è la stessa cosa.

Da parte italiana venne osservato un atteggiamento rigidamente leale. I più noti scrittori dei problemi adriatici non ne parlarono se non per reagire a qualche provocazione più francese che jugoslava. Nessun giornale importante pubblicò dal 1924 al 1927 scritti di rivendicazione adriatica. Vi fu una severa disciplina: valorosi italiani invitati dal Governo a sospendere delle conferenze annunciate sulla Dalmazia, ubbidirono. Anzi, per oltre due anni, parvero morti nella stampa italiana autorevole persino i problemi del Montenegro e della Macedonia: si scrisse pochissimo e con molti riguardi della grave crisi interna dello Stato S. C. S. Non si raccolsero molte provocazioni croate o slovene. Si usò persino eccessiva tolleranza verso il console jugoslavo (un serbo) di Trieste, che faceva propaganda slavofila su larga scala, falsificava passa

3- Politica.

porti per far emigrare ragazzi sloveni, ed esercitava notoriamente attivo spionaggio militare. Il Governo italiano provò che nulla poteva avvenire in Italia contro la sua volontà a danno del Trattato di amicizia e che i rapporti fra l'Italia e la Jugoslavia erano da esso pienamente dominati e in nessun modo influenzabili da forze irresponsabili o da passioni pubbliche. Se gli Jugoslavi volevano, i patti si potevano rigorosamente eseguire con piena tranquillità fra i due paesi.

Nel Regno S. C. S. avvenne proprio il contrario. Manifestazioni pubbliche di folle, manifestazioni di uomini responsabili e irresponsabili e manifestazioni di Governo costituirono una continua violazione del Trattato d'amicizia e delle Convenzioni di Nettuno. La propaganda per le rivendicazioni adriatiche antitaliane, invece di scemare, ebbe un crescendo appassionato: vi partecipò lo stesso Re Alessandro, quando intervenne alle cerimonie costitutive della risorta « Narodna Obrana ». Si commisero atti molto significativi, come quando si ricollocò a posto a Marburgo il monumento di Tegethoff, allontanato nel 1918, e la stampa scrisse che la vittoria di Lissa era stata vittoria di marinai jugoslavi contro l'Italia, quindi gloria della Jugoslavia...

Nella stampa della Croazia, della Slovenia, della Bosnia, ma spesso con non minore impeto in quella della Serbia, si pubblicarono ingiurie senza fine contro l'Italia, accusata di « barbarica oppressione » a danno degli allogeni e di smanie imperialistiche proprio da quella gente oppressiva e famelica di terra altrui. In Dalmazia continuava la politica d'« annientamento degli Italiani », proclamata da Trumbich sino dal 1898. Per rendere invulnerabile il croatismo in Dalmazia, aveva detto prima del Trumbich il Klaich, non v'è che un solo mezzo, l'estirpazione dell'italianità: il programma era riproclamato nelle fanfaronate dell'Orjuna e realizzato dagli Zupani. Si violavano esplicitamente le clausole delle Convenzioni di Santa Margherita e di Nettuno, togliendo agli Italiani il diritto di acquistare o di usare beni immobili nella Dalmazia, sciogliendo e vietando la Lega Nazionale, negando o revocando concessioni industriali e commerciali agli Italiani, chiudendo alcune scuole italiane. Nel novembre del 1926, toccato un

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