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costituzione, cercò egli forse di impedire la pubblicazione del manifesto, precisamente per il desiderio di legare il meno possibile il potere supremo? Egli conosceva bene il carattere e le inclinazioni dello Tsar. Comprendeva che la costituzione era data da lui per forza, contro la propria volontà. Gli era ben nota l'enorme influenza degli elementi reazionari alla Corte, la possibilità in seguito di tentativi, se non per annullare del tutto la costituzione donata, certo per renderne nulli gli effetti. E comprendeva in quale conflitto pericoloso con il paese si sarebbe messo Nicola II se gli fosse venuto in mente, dopo la solenne promessa, di condurre nel retroscena una campagna contro il proprio « dono ». In questo senso gli avvenimenti ulteriori hanno purtroppo pienamente giustificato il conte Witte.

La forma di rapporto aveva ancora un altro vantaggio su quella di manifesto: il vantaggio puramente tecnico. Nel rapporto, nell'aspetto in cui fu confermato e pubblicato, noi leggiamo:

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Il primo compito per il governo deve essere l'aspirazione a realizzare subito, — prima della sanzione legislativa attraverso la Duma, gli elementi fondamentali dell'organizzazione di diritto, la libertà di stampa, di coscienza, di riunione, di associa zione e l'inviolabilità personale. Il rafforzamento di queste importantissime basi della vita politica della società deve avvenire per via della normale elaborazione legislativa, accanto alle questioni che riguardano l'eguaglianza davanti alla legge di tutti i sudditi russi, indipendentemente dalla religione e dalla nazionalità. L'organizzazione dell'ordine di diritto richiederà un considerevole lavoro legislativo e l'organizzazione legislativa.

In altre parole: alla nazione si annunciava la Costituzione, si dava la promessa di realizzarla nei prossimi mesi; ma nello stesso tempo le si rivolgeva l'invito ad aspettare la sua realizzazione pratica. Mentre il manifesto, dando al nuovo governo l'esecuzione della volontà suprema, esprimeva questa volontà << per dare alla popolazione le basi incrollabili della libertà sociale sui principii della reale inviolabilità personale, della libertà di coscienza, di parola, di riunione ed associazione ». Nè i termini nè i metodi della realizzazione della costituzione donata erano indicati. Il popolo, incapace, sotto l'influenza delle passioni, di ragionare con calma, era facilmente portato ad interpetrare queste parole nel senso che l'azione dei diritti donati comincia dal momento della pubblicazione di essi. Era facilmente portato a ciò, perchè così voleva interpretare il manifesto. Il popolo realmente lo interpretò così; e il risultato furono le giornate di sangue, in tutta la Russia, subito dopo la pubblicazione del manifesto. Giornate, che trovarono la più terribile espressione nella «< rivoluzione di dicembre », quando a Mosca (il cuore della Russia) un intero quartiere fu sottoposto a bombardamento e centinaia di innocenti vi perderono la vita.

Questa circostanza non fece che accrescere il raffreddamento di Nicola II verso il conte Witte. L'insuccesso dei tentativi di formazione del Gabinetto versò ancora più olio nel fuoco. L'elemento liberale consentiva a entrare nel ministero di Witte e a lavorare con lui, ma non colla collaborazione di Durnovo, noto reazionario. Intanto Witte, spaventato dal movimento rivoluzionario, considerava necessario trasmettere l'amministrazione del ministero degli interni proprio a Durnovo, come a uomo che conosceva la tecnica dell'amministrazione e capace di prendere misure energiche, nel caso che queste fossero necessarie per ristabilire l'ordine. Lo Tsar considerò il conte Witte responsabile del fatto che gli elementi di sinistra furono nella Duma in numero assai maggiore, di quanto si pensasse di vedervene. Intanto l'Imperatore tratteneva il suo primo ministro avendo bisogno delle sue capacità finanziarie. La Russia a quell'epoca era in trattative con i banchieri francesi per il prestito dell'enorme somma di due miliardi e 250.000.000 franchi. Non appena il prestito fu concluso, Witte non fu più necessario, e lo Tsar lo mandò via (22 aprile 1906). Questo avvenne soltanto pochi giorni prima dell'apertura della Duma.

Da questo momento la carriera politica di Witte ebbe termine. Egli non tornò più al potere, sebbene come membro del Consiglio di Stato prendesse parte ai suoi lavori (morì nel 1915). La causa principale della « morte politica » di Witte bisogna cercarla nell'antipatia di Nicola II. Cozzarono due diverse concezioni del mondo, due nature psicologicamente opposte. Le radici dell'antagonismo sono profonde e complicate, e per definirle occorrerebbe un lungo scritto.

In ogni caso il nome del conte Witte nella storia della Russia sarà indissolubilmente legato all'introduzione della Costituzione, comunque si giudichino i suoi difetti ed i suoi meriti, e comunque si stimi la parte politica da lui rappresentata.

(Traduzione di Ettore Lo Gatto).

EUGENIO SCHMURLO.

I LIBRI

BENEDETTO CROCE: Storia del Regno di Napoli. -Laterza, Bari. L. 28.

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Uomini e cose della vecchia Italia. Laterza, Bari. 2 vol. L. 50.

Il « glorioso Regno di Ruggiero » ha sempre fornito pretesto di ideale ricostruzione da parte di storici e di studiosi. Individui e popoli non vivono senza una storia o una leggenda glorificatrice del passato e divinatrice dell'avvenire: onde onesto e legittimo è lo sforzo di ricercare tradizioni nel passato lontano quando ne manchino di presenti; pietoso, ma non disdicevole, l'affanno nel ricoprire d'oro e di orpello le nudità e le oscurità dei tempi, e nel tracciare disegni, e ricostruire fantasie, e segnare passaggi da una età all'altra, da un popolo all'altro, da una gloria all'altra. Così nel Risorgimento, coloro che avrebbero desiderato autonomo il Regno, o al più si sarebbero acconciati ad un legame federale agli altri Stati della Penisola, e coloro che a unità compiuta, amavano conservasse, il Regno, la propria fisionomia; fossero cattolici, napoletani e liberali, o fossero anticlericali e unitari; gli uni e gli altri, Cenni o Settembrini, traendo inspirazione da soggetti e figure diverse della storia del Regno, colorivano di sentimento e di passione le età trascorse e ponevano il loro desiderio e la ragione del loro essere, nella costruzione e imaginazione dell'avvenire.

Leggendo gli Studi sul diritto pubblico di Enrico Cenni, scrive il Croce, « il vecchio Regno di Napoli mi si trasfigurò innanzi gli occhi della mente non solo in uno degli Stati più importanti della vecchia Europa, ma in tale che aveva sempre tenuto, nell'avanzamento sociale, il primato, o almeno uno dei primi posti ». Questa civile Monarchia fondata da Ruggiero e giunta ai sommi fastigi con Federico di Svevia, anticipò lo Stato moderno, limitando i diritti del baronaggio, garantendo ai popoli libertà e giustizia, promuovendo con la guida illuminata del Sovrano cultura e benessere, estendendo tutto intorno, sul mare e sulle rive d'Africa, nei vicini Balcani e nel prossimo Oriente, sull'Italia media e superiore, il suo prestigio e le sue mire. La gloria e la potenza del Regno decaddero in breve, ma singolare e degno di ammirazione fu e rimase lo svolgimento del vivere civile pel rapido e tranquillo prevalere della ragione e del diritto sull'ordinamento feudale che fu altrove tenace e costrinse, per romperlo, a moti e a rivoluzioni fatali.

Qui fiorirono l'idea del Comune, i iura civitatis, il demanio comunale precostituito e preminente sui feudi, la prammatica di Ferrante d'Aragona (14 dicembre 1483), la vera Magna Charta dei diritti del cittadino; e qui durò la secolare lotta per l'autonomia e l'autorità dello Stato contro le pretese e le invadenze della Curia romana, e contro l'insediamento del Santo Uffizio, pur essendo il Regno cattolico e della fede osservantissimo. E come se ciò non bastasse qui s'ebbero i grandi studi e le formidabili anticipazioni del pensiero moderno con Bruno e Campanella, Vico e Giannone, tal che Napoli potè rappresentare sempre in Italia il pensiero e la filosofia, come Firenze l'arte e la poesia.

Queste sono le benemerenze ricordate eloquentemente e appassionatamente dal Cenni. E se esse oggi più non valgono e sono ignorate e misconosciute, se ne deve volere, conclude il Cenni, « alla setta liberale e gallicizzante stigmatizzata sin sull'apparire dalla santa e nazionale ira dell'Alfieri, alla setta che insistentemente si arrogò il monopolio della libertà e del progresso ».... « Fu dessa che rapi ogni originalità di fisionomia alla nostra giurisprudenza ed al nostro civile stato per renderci miserabili e umili copisti di Francia ».

Senonchè questa interpretazione ha un rovescio di formidabili considerazioni critiche. È sì vero che il Regno di Napoli fu, nel dodicesimo e tredicesimo secolo, modello a tutti gli altri Stati di Europa, il primo ove si ebbero legislazione non barbarica e amministrazione e finanza ordinate, il primo ove si affermò l'idea della « Monarchia assoluta, laica e illuminata »; ma, innanzi tutto, quello Stato normanno-svevo, ebbe nella Sicilia il suo centro generatore, nella Sicilia conquistata dal Conte Ruggiero ed elevata a Regno dal secondo Ruggiero. Fu opera, quello Stato, di alcuni accorti politici, di alcuni forti fondatori di Stati, atti a mutare il disordine e l'anarchia in ordine e gerarchia, a comporre i contrastanti e confusi elementi bizantini, musulmani, longobardi, varietà di costumi, di ordinamenti e di lingue, in una unità statale organica. Federico di Svevia riprese e continuò la tradizione di Ruggiero e così note son le caratteristiche del suo regno che è inutile qui ripeterle. Succedono gli Angioini che, abbandonando la lotta con la Curia romana, ma dominando, ad un tempo, le elezioni dei Pontefici, perseguono, con Carlo d'Angiò, pensieri e disegni di grandezza. « Lo re Carlo di Gerusalemme di Cecilia scrive Giovanni Villani era il più possente re e il più ridottato in mare e in terra, che nullo re dei Cristiani» e già « per lo suo grande Stato ed imperio » preparava la spedizione che doveva coronare la sua opera, « uno grande passaggio e maraviglioso per prendere e conquistare lo imperio di Costantinopoli ». Il vespro siciliano troncò quelle speranze e questa impresa, e il distacco della Sicilia, che ne seguì, infranse l'unità della Monarchia, ne ruppe le forze e diè origine

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al vero Regno di Napoli nella formazione politica e sociale che durò più secoli e di cui permangono ancora numerose le tracce.

La Monarchia normanno-sveva fu estranea ai popoli che dominò: una nazione non sorse, un'epoca non vi fu, un'arte propria non fiori se non di corte; non si ritrovano in tutto quel periodo ricordi che possano favorire la nostra compiacenza patriottica e imagini della nostra virtù. La storia di quella Monarchia non può quindi identificarsi con la storia dell'Italia meridionale: essa fu rappresentata sulla nostra terra, ma non prodotta dalla nostra gente. Altra fu la nostra storia, secondo il Cenni, come la costante associazione e difesa dei diritti del Comune, la libertà delle persone verso il possessore del feudo, il diritto civile prevalente su quello feudale, le lotte con Roma e il rifiuto della Inquisizione, la grandezza dei nostri scrittori e filosofi. Ma, nota il Croce, corrisponde sempre e dovunque, il fatto, all'ordine giuridico o meglio alla formula giuridica? Purtroppo, guardando ai fatti, l'Italia meridionale ci si mostra, nelle storie, nelle cronache, nei documenti, per lunga e lunga serie di anni, dominata dalle « usurpazioni e prepotenze baronali, povera, con agricoltura primitiva, con scarsissima ricchezza mobiliare, con diffuso servilismo e congiunta ferocia, e, insomma, in condizioni tutt'altro che prospere, eque e benigne ».

Ma quel che più conta, anche se il progresso di quegli ordinamenti civili fosse effettivo, anche se la storia economica e giuridica e sociale dell'Italia meridionale, fosse privilegiata nei confronti di quelle d'altri paesi, resterebbe sempre da meditare sulla stora vera, la storia per eccellenza di natura morale e squisitamente politica. Questa storia è promossa dai politici e non dai giuristi e dagli avvocati, i quali hanno per ufficio di servire sempre particolari interessi economici e non di suscitare e diffondere ideali di rinnovamento politico. La dottrina del foro napoletano sui beni feudali considerati beni nazionali, non costituisce un fatto politico ma... una dottrina da far valere dagli avvocati nel foro quando potesse convenire il farlo e da sottacere in caso contrario.

Dire che da secoli, noi avevamo attuato la « dichiarazione dei diritti dell'uomo » è... una arguzia dato che quella « dichiarazione » non è un formulario giuridico ma un fatto politico vivo e trasformativo della società del proprio tempo. Così, esagerato e non del tutto rispondente a verità, è il vanto del rifiuto del tribunale del Santo Ufficio; come inopportuno l'elogio della rivoluzione legale di Masaniello della quale la storia dà altro giudizio. Là dove è invece veramente grande il pensiero di Vico; ma al pari di Campanella egli non scrive per la politica contingente e per l'azione politica, ma disegna un tipo di civiltà da attuare e ricerca, sotto la specie eterna, le leggi dello spirito.

Il Regno di Napoli dopo la mutilazione della Sicilia, fu

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